PISA
Dal V sec. a.C. Pisa fu un insediamento etrusco, posto direttamente sul mare. Nel II sec. a.C. i Romani costruirono il Portus Pisanus, che divenne un’importante base navale.
Dal V sec. a.C. Pisa fu un insediamento etrusco, posto direttamente sul mare. Nel II sec. a.C. i Romani costruirono il Portus Pisanus, che divenne un’importante base navale.
Dopo la fine dell’Impero Romano, Pisa fu anche per i Goti, i Longobardi e i Franchi una città portuale di grande importanza. Nella loro espansione nel Mediterraneo, i Pisani conquistarono la Sardegna e le isole Baleari, scontrandosi a lungo con i Saraceni. ma la rivalità più impegnativa fu quella con Genova per il controllo della Sardegna e della Corsica. Dopo varie vicende, nel 1406 Pisa fu definitivamente sconfitta da Firenze e il suo territorio entrò a far parte dei domini fiorentini.
Si deve a Cosimo I l'idea di costruire a Pisa un arsenale per le navi della flotta toscana. Nel 1546 dal nuovo cantiere navale mediceo veniva varata la prima galera interamente costruita dalle maestranze locali. L'arsenale fu potenziato con l'istituzione nel 1562 dell'Ordine di Santo Stefano. La concorrenza dei cantieri di Livorno e Portoferraio e una mutata politica marittima causarono il lento declino della struttura pisana tra XVII e XVIII secolo.
Nonostante il ‘torpore’ indotto nell’antica capitale della Repubblica Marinara da un dominio fiorentino particolarmente opprimente e deprimente, il gradimento di lunghi soggiorni in città da parte di residenti stranieri di qualità fu un fenomeno in costante crescita fra XVIII e XIX secolo (da Algarotti a Alfieri, da Byron a Leopardi) e l’avvento della nuova casa lorenese in sostituzione dei non certo amati Medici sembra presiedere a una sorta di risveglio edificatorio e artistico di Pisa, nel segno però non tanto di un illuministico ritorno al severo classicismo cinquecentesco, quanto di uno scatenamento fantastico in chiave di un peculiare, sbrigliato Rococò.
Un tardo Barocco che assume toni concitati e teatrali assai più che negli altri centri della Toscana, quasi a finale rivendicazione di un’alterità della città nei confronti del gusto granducale, grazie al fiorire delle singolari personalità di artisti quali Andrea e Giuseppe Vaccà scultori, Mattia Tarocchi pittore e quadraturista o Giovan Battista Tempesti quadraturista e architetto.
Si ricordano, a titolo di esempio, gli eleganti ambienti del rinnovamento di metà Settecento del Palazzo dell’Arcivescovado (i ricchi affreschi per la Cappella dei fratelli Francesco e Giuseppe Melani, per il salone di Giuseppe Zocchi, per la Cappella Privata di Giovan Battista Tempesti); il Casino dei Nobili, realizzato nel 1750 in scenografica posizione al capo settentrionale del Ponte di Mezzo; la pittoresca fontana in Piazza del Duomo del 1764; il nuovo altare maggiore sempre della Cattedrale in marmi policromi, del 1773; a tacere di numerosi interventi in tante ville del territorio circostante.
Un fenomeno di ‘riarredo’ urbano che investì in pieno anche l’edilizia sacra, con la realizzazione o di nuove chiese o di integrali rinnovamenti di edifici antichi in chiave sbrigliatamente rococò, come nel caso delle opere di Ignazio Pellegrini (interessante personalità di artista veronese presente anche nella Firenze lorenese), quali le nuove facciate di San Tommaso (1756) o della Madonna dei Galletti; o in quelle dovute all’accoppiata felice di Mattia Tarocchi e Giovan Battista Tempesti (brillante ‘duo’ che copriva sia la pittura, sia la quadratura, sia l’architettura, sia l’esecuzione di monumentali arredi scultorei soprattutto in stucco) quali la Sant’Apollonia del 1777; o nel caso della modernizzazione di San Giuseppe da parte dei fratelli Melani, del rifacimento della fronte di San Silvestro da parte di Andrea Vaccà, del rinnovamento interno di San Domenico o della ricostruzione di Santa Marta nel 1760.
Una nuova magnificenza che si estende anche all’imago urbis, innanzi tutto con il risanamento delle prime porzioni centrali del Lungarno, scenografico palcoscenico affacciato sulla gran luce dell’ampia ansa compiuta dal fiume nel suo corso cittadino cui lavorò inizialmente lo stesso Ignazio Pellegrini e che vide fiorire nel vetusto Palazzo Reale buontalentiano, affacciato appunto sull’Arno, numerosi ambienti improntati ora alle grazie settecentesche e di primo Ottocento, assistendo quotidianamente al sempre più mondano rito del passeggio di cittadini e residenti stranieri, che favoriva l’apertura di locali alla moda quali il famoso Caffè dell’Ussaro, in funzione dal 1794 in Palazzo Agostini.
Né mancava all’appello di questa singolare rinascita dovuta al libero clima pietroleopoldino il côté dell’arte edificatoria improntata alla scienza e al funzionalismo cari alla mentalità illuministica, come nel caso del rinnovato Orto Botanico impreziosito da una Palazzina (1750 circa) che resuscita le eleganze delle grotte cinquecentesche, in quello del Conservatorio di Sant’Anna, dove l’efficientismo dell’istituzione dedicata alla pubblica utilità risulta come riscaldata dal rinnovamento dell’omonima chiesa (1741-1747) a cura dei fratelli Melani o in quello del nuovo Seminario Arcivescovile sistemato nel 1748 nell’antico convento domenicano di Piazza Santa Caterina.
Se la presenza dei Francesi non giunse a lasciare segni tangibili nel tessuto cittadino (il risanamento del quartiere attorno a San Francesco, già studiato nella seconda metà del Settecento, prenderà corpo solo nei decenni della Restaurazione, mentre i lavori di abbellimento al Palazzo Reale risalgono essenzialmente al periodo del Regno d’Etruria e sono dovuti a Giuseppe Marchelli e Francesco Bombicci), eccezion fatta per il San Zeno, posto all’estremo nord-occidentale della città, che venne sconsacrato nel 1809, di grande importanza furono la creazione o il potenziamento di istituti consacrati alla didattica, allo studio e alla conservazione delle opere d’arte, quali sia l'istituzione da parte di Napoleone della Scuola Normale Superiore, collegio universitario modellato sulle analoghe istituzioni imperiali (dedicato agli studi delle lettere, della filosofia, delle matematiche e delle scienze), poi riorganizzata da Leopoldo II e solennemente inaugurata di nuovo nel 1847, sia la fondazione, nel 1812, dell’Accademia di Belle Arti, sistemata nel buontalentiano Palazzo dei Canonici sulla Piazza del Duomo e affidata a Carlo Lasinio.
Questa singolare personalità di pittore, incisore e studioso delle antichità, trevigiano, è legata anche alla grande istituzione museale pisana del Camposanto, di cui è nominato Conservatore dal 1807, haut- lieu dove le memorie classiche (sarcofagi romani, tra l’altro seme della ‘rinascenza’ scultorea di Nicola Pisano), medioevali (affreschi trecenteschi di scuola giottesca) e rinascimentali (il ciclo biblico di Benozzo Gozzoli) venivano a saldarsi con la presenza di alte testimonianze della scultura moderna, a partire dal Cinquecento (Ammannati) per giungere alla più recente modernità, neoclassica e romantica (monumenti funebri di Francesco Algarotti (1764) di Carlo Bianconi e Mauro Tesi, Giovan Battista Tempesti (1804) di Tommaso Masi, Lorenzo Pignotti (1813) di Stefano Ricci, Andrea Vaccà (1826) di Berthel Thorwaldsen, Alessandro Gherardesca (1852) di Emilio Santarelli, la statua detta l’Inconsolabile di Lorenzo Bartolini per la tomba del Conte Mastiani (1841) o l’Urania di Giovanni Dupré, a formare un vero e proprio museo di scultura ‘contemporanea’ superato solo dalla “urne dei forti” della Santa Croce di Firenze.
Una vocazione alla didattica di eccellenza che, affondando le radici nella tradizione dello Studio, ampiamente incrementato da Lorenzo il Magnifico alla fine del Quattrocento, proseguiva anche nei decenni della Restaurazione lorenese con la grande biblioteca della Sapienza (fondata nel 1742) rinnovata nel 1823, con le ricadute cittadine (reperti conservati nell’attuale Museo dell’Opera del Duomo) della spedizione in Egitto del pisano Ippolito Rossellini nel 1828-1829 (insieme a Leprius e Champollion), o con l’organizzazione di grandi eventi culturali quali il Congresso degli Scienziati Italiani.
Anche il tema, così alla moda, del passeggio e del verde pubblico (si pensi a quanto era o sarebbe avvenuto nelle principali città toscane, da Firenze con le Cascine a Livorno colla Passeggiata degli Acquedotti, a Lucca con il giro arborato delle antiche mura rinascimentali, a Pistoia col parterre di fronte al Famedio di Piazza San Francesca o col pittoresco Viale “Arcadia” lungo le mura, a Siena coi Giardini della Lizza) conosce significative testimonianze nella Pisa soprattutto di Leopoldo II: così per l’amplissima Piazza di Santa Caterina, la cui sistemazione a spazio neoclassicamente rigoroso inizia nel 1816 a cura di Alessandro Gherardesca per culminare con l’erezione al suo centro del Monumento a Pietro Leopoldo, del medesimo Gherardesca e degli scultori Luigi Pampaloni (statua del Granduca) ed Emilio Santarelli e Temistocle Guerrazzi (bassorilievi) del 1833; così per il Pubblico Passeggio sul nuovo lungo fiume oltre Porta a Piagge, ove Lorenzo Materassi tra il 1847 e il 1849 sistema (oggi si direbbe) a parco fluviale il complesso di arginature eseguite lì contro il rischio di alluvioni (includendo in questa promenade anche l’antichissima chiesa di San Michele degli Scalzi), progettando anche l’allargamento del contiguo Ponte della Fortezza, mentre Ridolfo Castinelli nel 1852 progettava per questa nuova area pubblica sia la monumentale Barriera detta appunto di Porta a Piagge, sia il prolungamento del Lungarno; così, infine, per la ristrutturazione della rettangolare Piazza di San Paolo all’Orto (1856), al centro di un quartiere il cui risanamento verrà completato sotto il nuovo Regno d’Italia (qui sorgerà tra l’altro il grande Teatro Verdi, concluso nel 1867, di Ranieri Simonelli).
Significativi sono anche gli interventi relativi al verde privato, con l’approntamento di pittoreschi giardini urbani improntati al più aggiornato gusto all’inglese, come il raffinato Giardino Scotto di Alessandro Gherardesca e come la sistemazione ‘paesistica’ dei terreni ricavati all’interno dell’antico baluardo orientale della Cittadella sangallesca.
Né poteva mancare il nuovo Cimitero monumentale di Francesco Riccetti (iniziato nel 1823) in posizione salubremente extra-urbana.
Una città così ricca di memorie medievali non poteva non conoscere una feconda stagione di interventi sul corpo vivo delle principali “glorie patrie”, che registrò i drastici “restauri in stile” dei principali monumenti medioevali, dall’incredibile, avventuroso smontaggio e rimontaggio dell'intero scrigno marmoreo di Santa Maria della Spina (oggetto di continue attenzioni fra il 1835 e il 1885), ai rifacimenti dell’esterno del Santo Sepolcro (1850 e seguenti: interventi di Giovanni Rosini, Ridolfo Castinelli e Florido Galli) o degli interni di Sant’Andrea Forisportam (1840) e di San Paolo all’Orto (1853) al drastico maquillage che toccò soprattutto alla Cattedrale.
Il prestigioso complesso di monumenti sorgenti sulla cosiddetta Piazza dei Miracoli conobbe, così, le drastiche cure di Giovanni Storni (dal 1857) per quel che riguarda soprattutto il prospetto del Duomo e di Pietro Bellini per il rinnovamento integrale delle gradinate (1856) sempre della Cattedrale, nonché l’opera assidua di Alessandro Gherardesca cui si deve la liberazione dell’imbasamento del Campanile e il rifacimento di una delle tre porte (quella sud) del Battistero.
Anche l'intera Piazza del Duomo fu poi, nel suo insieme, oggetto sia in età granducale sia sotto il Regno d'Italia di tutta una serie di progetti e di interventi, per opera innanzitutto (dal 1835 circa) di Alessandro Gherardesca stesso (inventore per così dire del “prato”), di Stefano Piazzini, Giovanni Pacini, Luigi de Cambray Digny, Mariano Falcini e, infine, Pietro Bellini e Vincenzo Carmignani, tecnici tutti a vario titolo dell’Opera della Primaziale, tesi a modificarne anche drasticamente l'aspetto, ricostituendone una facies che, per quanto oggi considerata "storica", appare invece sostanzialmente frutto 'recentissimo' di un'interpretazione compiutamente romantica del grande complesso medioevale, posto paradossalmente a “galleggiare” ora, nel suo marmoreo, abbacinato e antichissimo splendore mediterraneo, su di un verdissimo manto d'erba, certo carissimo alla sensibilità delle nuove generazioni amanti dei giardini all'inglese (non a caso punteggiati di pittoreschi, spesso gustosamente 'spaesati' monumenti di ogni stile e in particolare, appunto, neomedioevali), ma, probabilmente, inconcepibile per gli originari creatori romanici della gran piazza all'antica, che ben sapevano come i 'fòri' (romani, bizantini o arabi che fossero), avevano riservato per i piani di posa dei loro monumenti ben altri preziosi, lapidei o marmorei 'lastrici' che non un simile umido, albionico green.
Una Pisa, insomma, che passa da un ribellistico e attardato Rococò a un sentimentalmente impegnativo Romanticismo edificatorio, quasi saltando il Neoclassicismo almeno nella sua versione più razionalmente rigorosa: pochi sono in effetti i segni di un linguaggio classicistico che, per esempio, così egemone stava essendo nella coeva esperienza urbanistica della vicinissima Livorno: si può, in effetti ricordare i lavori di mantenimento e abbellimento del Palazzo Reale eseguiti fra il 1821 e il 1831 a cura di Francesco Riccetti architetto del servizio granducale delle Regie Fabbriche; il rifacimento del Palazzo Pretorio in forme anticheggianti da Alessandro Galilei attorno al 1825, o il progetto (1840 circa), significativamente non eseguito, di Pasquale Poccianti teso a trasformare l’interno della Chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano, ad aula unica, in una grandiosa basilica a tre navate scompartite da colonne marmoree (un primo progetto era stato espresso nel 1838 da Florido Galli, professore presso l’Accademia di Belle Arti pisana e un altro nel 1840 dallo stesso Alessandro Gherardesca, mentre, dopo un ulteriore progetto anch’esso non realizzato di Niccolò Matas del 1854, Pietro Bellini si occuperà della modernizzazione della chiesa medesima verso il 1860 dopo la lunga e inattiva parentesi pocciantiana: si ricorda come nel 1860 Evangelista Lombardi, antico ingegnere delle Acque e Strade, proponesse di impiegare molti dei marmi predisposti da Poccianti stesso per questo mancato intervento che, se realizzato, avrebbe coronato magnificamente la sua cinquantennale carriera, per l’abbellimento della nuova facciata dell’Università); o, infine, l’allungato prospetto laterizio, gentilmente neogotico, del Monastero delle Benedettine affacciato sul Lungarno, opera del 1850 dell’architetto Domenico Santini.
Pisa romantica, amante oltre che dei silenzi anche dei forti contrasti, conobbe invece il ferrigno e duplice abbraccio della ferrovia, colla tratta della linea Leopolda (1841), diretta a Livorno, che la sfiorava da sud e con il tronco che a settentrione (1846) la allacciava a Lucca (capitale sino al 1847 del Ducato borbonico): il vero e proprio sviluppo urbanistico della città in funzione di questo nuovo mezzo di trasporto si verificò, però, solo nei primi decenni dell’Unità d’Italia, quando la nuova Stazione (1862) divenne polo di attrazione per una vera e propria seconda Pisa pianificata da Pietro Bellini e da Vincenzo Micheli nella zona compresa tra la riva sinistra del fiume e l’arco meridionale della via ferrata. Si ricorda poi anche il progetto dell’ingegnere Rodolfo Castinelli, del 1859, per una nuova ferrovia che unisse Livorno a Parma passando per Pisa, Lucca, Sarzana e Pontremoli.
La città conobbe, infine, anche una significativa campagna di interventi improntati a quell’architettura delle pubblica utilità che rappresentò uno dei ‘marchi’ più riconoscibili della politica edificatoria lorenese: così per la riduzione a scuderie dell’antico e glorioso arsenale, a cura di Francesco Riccetti, nel 1817, autore anche, in qualità sempre di architetto delle Regie Fabbriche, del restauro della Caserma d San Martino nel 1832 e di lavori di riattamento all’interno dell’Università, al Museo di Storia Naturale e al nuovo teatro Anatomico fra il 1832 e il 1833; così per il progetto per l’Ospedale Pisano, di Tito Passigli, del 1841; così per il progetto di restauro delle Mura medioevali da parte dell’ingegnere Eugenio Fabre delle Acque e Strade, del 1842; così per i progetti di nuove strade nel quartiere di San Francesco e di una nuova piazza porticata da destinarsi a mercato del pesce da parte di Pietro Nellini, del 1855.
Tralasciando altre opere pisane di Alessandro Gherardesca, quali il Palazzo Toscanelli o il Casino Pesciolini o il restauro del Teatro Rossi, non si può invece non ricordare interventi di questo stesso nell’immediato suburbio quali la Villa Roncioni a Pugnano, del 1826-1830, culminante nel ridisegno romantico del parco e nell’erezione del neogotico edificio della Bigattiera, un po’ casino di delizia un po’ filanda per la produzione della pregiata materia prima per i tessuti in seta; o la Villa Grossi a Mezzana, dello stesso architetto, del 1830; o il complesso di interventi lorenesi nel parco granducale di San Rossore, comprendente un complesso di tenute anticamente medicee da San Rossore a Vecchiano a Migliarino occupanti una ‘striscia’ di costa profonda alcuni chilometri e lunga oltre una ventina, area ‘protetta’ comprendente fra l’altro la foce del Serchio e rarità naturalistiche quali dune costiere, tomboli, pinete e stagni, particolarmente pregiata e curata da Pietro Leopoldo, che la sottopose a un meticoloso riassetto forestale, incrementando le piantagioni di pini a ombrello, e idraulico col tracciamento di canali ed emissari (Fiume Morto).